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Scollinando nei dintorni di Sparanise, virtual tour con Peppino Marchione

Nuovo appuntamento con le Passeggiate Calene
24/10/2011 12:36

Sparanise - Protetta da una cintura di basse colline, la nostra cittadina si adagia sulle ultime propaggini di queste alture, discendendo dolcemente verso la pianura. Le colline che circondano Sparanise non sono mai state un ostacolo, anzi. Essendo agevoli da valicare, hanno da sempre rappresentato una scorciatoia per raggiungere luoghi e vie circostanti l’abitato.
Così ho deciso di fare un percorso collinare che mi porterà, a nord, nell’area compresa tra il territorio teanese e quello caleno; ad ovest, nella valle del Savone toccando i centri di Montanaro e Torre di Francolise. La maggior parte dei sentieri si dipartono da via S. Vito, da dove, dopo qualche centinaio di metri si dirama un tridente di stradine. Quella a destra passa sotto Briccelle e raggiunge Masseria Ettorre. Questa masseria risale al XVII secolo e conserva, murato in un fabbricato moderno, un paramento funerario del I secolo d.C. Un bucranio tra eleganti festoni e motivi floreali mi guarda mentre mi avvicino alla masseria; magnifici girali con tralci e grappoli d’uva mi ricordano che non c’era solo il vino falerno, ma anche quello caleno, quasi altrettanto rinomato in epoca imperiale. Da Masseria Ettorre una strada di bianchi brecciolini aggira monte Calabrese, andando a raccordarsi con la provinciale per Calvi all’altezza della “cappelluccia”. Fino ai primi del XX secolo deve essere stata questa la via di collegamento pedemontana tra Sparanise e gli altri casali di Calvi, mentre più oltre, nella pianura, correva l’antica via Falerna che menava a Calvi Vecchia. Il ramo centrale del tridente viario travalica un passo tra monte Briccelle ed un’altra collina più ad nord-ovest. Questo tracciato deve essere molto antico per vari motivi. Innanzitutto perché sbuca sulla via Latina (attuale Casilina); e poi perché percorrendolo si ritrovano resti di tegole antiche, cocciame di varie epoche (romana, medievale) e, posso testimoniarlo, monete di età medievale. Da questo asse si stacca un diverticolo che conduce all’Acqua Iulia. Ma attenzione: forse questo nome è una variante erudita del toponimo “Acqua Vivula”, come ancora oggi lo designa la nostra gente; oppure, e non è un’ipotesi peregrina, potrebbe davvero essere un toponimo di età romana, che indicherebbe il “caput aquae” dell’antica Cales. Per essere più chiari, non si può escludere che da questa sorgente partisse un acquedotto romano che portava l’acqua all’abitato. Il luogo è davvero suggestivo! Si trova sul confine tra tre comuni: Sparanise, Calvi e Francolise e da qui si può vedere parte della valle del Savone e la piana che precede le prime alture su cui si adagia Teano. La sorgente è seminascosta dalla vegetazione rigogliosa che la circonda, facendola somigliare ad un antro di ninfe. Le eleganti piantine di capelvenere fanno da cornice all’abbeveratoio che raccoglie l’acqua sorgiva, dove ancora oggi vanno a dissetarsi le pecore di qualche pastore, magari affidate ad un ragazzotto albanese o nordafricano. Dalla sorgente, contornando un colle interamente ricoperto di lecci ed altre specie di querce, intessuti con gli arbusti della macchia mediterranea, di proprietà da tempo immemorabile dei De Renzis di Montanaro, si giunge ad un pianoro da cui si intravvede parte della pianura calena. Oggi c’è solo una costruzione in rovina, costruita alcuni decenni fa (ex proprietà Ricci), ma questo luogo un tempo potrebbe essere stato ben altro. Permettetemi allora di raccontarvi una piccola storia. Negli ultimi tempi mi è capitato spesso di fare delle lunghe passeggiate con Pierino di Maio, che è una persona amabile e intelligente, oltre ad avere una memoria prodigiosa in grado di far rinascere sotto gli occhi scene, avvenimenti e luoghi del suo passato personale. Spesso si prendeva via S. Vito, risalendo lentamente verso la collina lungo un sentiero oggi asfaltato che aggira Monte Pezza. Un giorno, indicandomi il pianoro sotto la collina del barone, Pierino mi disse che suo nonno, mentre eseguiva dei lavori per la realizzazione di una vigna nei pressi della masseria (agli inizi del ‘900), trovò numerose tombe in piperno, contenenti scheletri umani di notevoli dimensioni. Poi aggiunse che la gente, all’epoca, diceva che lì c’era stato un monastero. Al ritorno da quella passeggiata ci fermammo a salutare una vecchietta, sua conoscente, che era vissuta in quella masseria. “Zia Filumè, vi ricordate come si chiamava quel posto?” le chiese Pierino. E la vecchina pronta rispose “La masseria si trovava là dove si diceva che in passato c’era il monastero di Santa Costanza”. Il racconto di Pierino mi restò impresso; così feci delle ricerche, purtroppo lacunose per mancanza quasi totale di riferimenti storici, ma che comunque mi permisero di formulare un’ipotesi. Tanto per cominciare, trovai che il colle dietro questo posto si chiama S. Costanza. Anche in questa ricerca, inoltre, mi venne in aiuto mia guida, l’abate Zona, il quale cita S. Costanza, dicendola “confinante con i beni demaniali di Sparanisi ”. Inoltre, le Rationes Decimarum dell’anno 1326, relativamente alla Diocesi di Calvi, citano una chiesa di S. Costanza. Per non farla troppo lunga, preferisco riassumere gli elementi sui quali ho basato la mia ipotesi. Essa tiene conto di quattro indizi, e cioè nell’ordine: - riferimento ad una chiesa di S. Costanza in Diocesi di Calvi nominata nelle Rationes dell’inizio del XIV secolo; - località S. Costanza confinante con i beni demaniali di Sparanise, di cui parla M. Zona all’inizio del XIX secolo; - colle S. Costanza, in territorio di Francolise, frazione di Montanaro, a breve distanza dall’abitazione; - ricordo di un monastero di S. Costanza, in persone ancora viventi, là dove sono emerse tombe in pietre di piperno. Mi sembra, dunque, probabile che il sito dell’ex proprietà Ricci, precedentemente appartenuto alla famiglia Cancelliere, sia quello dove un tempo si trovava un monastero, con annessa chiesa, intitolati a S. Costanza. Di ritorno dalla sorgente dell’”Acqua Vivula”, giunti all’incrocio dove si trova la piccola edicola un tempo dedicata presumibilmente a S. Vito, svoltando a sinistra e percorrendo un sentiero che procede alle pendici del colle, ci si imbatte in una strana costruzione in pietre a secco che per la sua forma somiglia a un nuraghe. Più di una persona mi ha detto che si tratta di una vecchia calcara. E, in effetti, sembra proprio che si tratti di una “calcara”, perché ho trovato dei confronti in altre regioni meridionali (ad esempio, in Puglia), dove si conservano ancora queste costruzioni. Erano fatte in muratura realizzata con la tecnica delle pietre “a secco”, di forma tronco-conica e utilizzate per la produzione di “calce viva” mediante la cottura di sassi calcarei. Questi venivano collocati all’interno della calcara, solitamente ricoperti da uno strato di argilla per ridurre la dispersione termica. Era dotata di un’apertura rivolta a sud, adiacente alla strada, che rappresentava l’ingresso di alimentazione dove veniva immessa la legna. Il fuoco prodotto dalla combustione della legna, costantemente alimentato, arrivava a sviluppare una temperatura interna di 800 gradi. Quando i sassi erano definitivamente cotti, dopo alcuni giorni si provvedeva a “scaricare” la calcara asportando i sassi divenuti leggerissimi. Trasportati sul cantiere e immersi in apposite vasche contenenti acqua, i sassi cotti formavano la calce ”spenta”. Mescolando tramite la “marra” (un attrezzo dal manico molto lungo simile ad una zappa) calce con acqua ed altri aggreganti (sabbia, frammenti di laterizi, ecc), si produceva la calcina, la quale, versata in appositi vassoi in legno o ampi secchi, veniva trasportata da manovali sul cantiere, dove i muratori, dopo averla nuovamente mescolata con la cazzuola, ne stendevano uno strato sui vari mattoni o pietre da mettere in opera. Ho anche scoperto che l’uso della calce per la preparazione di malte leganti le murature di pietra ha origine in età romana e soleva sostituire l’argilla. Pure in età medievale si continua a farne un ampio uso. Ma la cosa interessante è che la calcara medievale non differisce molto da quella romana, e dall’alto medioevo sino all’età moderna subisce minimi cambiamenti. Così mi sono chiesto a che epoca risalisse la nostra calcara e, in mancanza di altri elementi, ho fatto il semplice ragionamento che una costruzione giunta pressoché intatta fino ai nostri giorni non deve essere molto antica. Quindi sono portato a ipotizzare che risalga ad un periodo non superiore a due-tre secoli fa. In ogni caso, si tratta della sopravvivenza di un raro esempio di sistema di produzione della calce che andrebbe salvaguardato come un piccolo gioiello di archeologia industriale.
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