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Perché non intitoliamo la caserma dei carabinieri ad Antonio Mancino?

Per la storia è il primo carabiniere ucciso dalla mafia
18/9/2008 14:45

Sparanise (di Ilario Capanna) – Pochi giorni fa è ricorso il 65 anniversario dell’uccisione di Antonio Mancino, carabiniere sparanisano che la storia italiana considera come la prima vittima della Mafia appartenente alle forze dell’ordine. L’episodio risale al 2 settembre del 1943 in una irredimibile Sicilia, quando nelle campagne di Quarto Mulino frazione di San Giuseppe Jato, il giovane carabiniere viene ferito mortalmente da un colpo di pistola esploso da Salvatore Giuliano, che da quel momento in poi divenne ufficialmente “Il Bandito Giuliano”. Forse sono in tanti a non sapere che Antonio Mancino aveva moglie e figli che vivevano con lui in Sicilia e che proprio a San Giuseppe Jato è nata l’unica rappresentante ancora in vita della sua famiglia, la 64enne Atonia Mancino che all’epoca dei fatti era ancora in grembo alla madre, la signora Giustina Mandara. Il triste avvenimento può essere definito come una sorta di chilometro zero della lunga autostrada di morti che la mafia ha prodotto negli ultimi 65 anni. Un sacrificio in termine di vite umane quello che comincia con l’uccisione dello sparanisano Antonio Mancino, che l’Italia ha dovuto pagare e che non ha eguali in nessun altro paese civilizzato. Nel corso della funesta esistenza, la banda Giuliano costò all'Italia la vita di 149 persone: 42 civili e 86 militari (un ufficiale e 4 soldati dell'esercito; 3 ufficiali dei carabinieri; 24 sottufficiali; 54 militi), 21 poliziotti (3 funzionari, 3 sottufficiali, 15 agenti). Senza contare i reati minori. Su di essa pesarono inoltre 172 tentati omicidi, 142 di militari e 30 di civili; 46 sequestri di persone e 3 stragi. Nella storia dei luttuosi avvenimenti italiani restò scolpita quella di Portella della Ginestra, capostipite sin dall'immediato dopoguerra di tutte le stragi che poi avrebbero insanguinato il Paese. La prima, insomma, di un filone che, pur in epoche e su scenari diversi, avrebbe avuto gran clamore, suscitato dibattiti parlamentari e vespai di polemiche, partorito interminabili istruttorie e lunghi processi. Ma alla fine spesso resteranno ignoti i mandanti e a volte anche gli esecutori e i retroscena, in un mare comunque di dubbi e di interrogativi, al punto che molti esperti diranno: "La strategia della tensione non iniziò nel 1969 nella milanesissima Piazza Fontana ma oltre due decenni prima nella sicilianissima Portella della Ginestra". La cronaca dell’assassinio è racchiusa tutta in un interessantissimo verbale redatto dall’allora comandante della stazione dei Carabinieri di San Giuseppe Jato il maresciallo maggiore Giacomo Garrone, datato 8 ottobre 1943. “Alle ore 13,00 – riporta la copia del verbale conservato gelosamente dalla maestra Mancino – la guardia Barone (che faceva parte della pattuglia di rappresentanti delle forze dell’ordine presenti sulla scena del delitto perché impegnate in un pattugliamento volto a controllare il contrabbando, ndr) contatta la stazione di San Giuseppe Jato e comunica che un contrabbandiere aveva ferito il carabiniere Mancino. Avvertiti i superiori, il comandante dispone immediatamente di mettere in essere tutte le azioni idonee a salvaguardare la vita del carabiniere ferito”. Dopo poco, Antonio Mancino viene trasferito all’ospedale n. 4 di Monreale. “Durante il trasporto - si legge testualmente – interpellato il Mancino se avesse gradito portare a conoscenza dell’accaduto la propria moglie, con animo sereno mi rispose: maresciallo, per il momento cercate di tenere celata la cosa, dando ad intendere a mia moglie che si tratti di ferita riportata in seguito a caduta; in seguito, se dovessi peggiorare è mio intendimento riabbracciare sia lei che il mio caro figlioletto. Giunto in ospedale, Mancino viene dichiarato in pericolo di vita, le probabilità di salvezza sono poche vista la ferita”. Quando di li a qualche ora la moglie Giustina Manadara entra in ospedale è già a conoscenza del fatto perché la notizia si era immediatamente propagata in paese. Da quel momento inizia la lenta agonia di Antonio Mancino, e contestualmente, nelle stesse ore, inizia la carriera criminale di colui il quale passerà alla storia come “il bandito Giuliano” uno dei capostipiti della mafia moderna, ironia della sorte muovendo i primi passi nelle medesime condizioni fisiche del carabiniere, alle prese con un ferimento da arma da fuoco. L’agonia di Antonio Mancino si protrarrà per tutta la notte fino alla mattina del giorno seguente, sempre confortato dall’affetto della moglie. In quelle ore il giovane carabiniere si vede passare davanti agli occhi la sua breve e valorosa esistenza, dall’infanzia vissuta nella sua amata Sparanise dove all’ombra della Beatrice nel 1909 era venuto alla luce, alla divisa da carabiniere, portata sempre con devozione e spirito di appartenenza. Sicuramente gli saranno passati davanti agli occhi tutti quei momenti importanti che come carabiniere, uomo, marito e padre non avrebbe più potuto vivere a livello terreno. Chissà cosa avrà pensato nel vedere il pancione della moglie, in dolce attesa di una bambina che in suo onore si chiamerà Antonia, che avrebbe visto la luce solo sei mesi dopo, un tempo troppo lungo per chi doveva fare i conti con una pallottola troppo vicina al cuore. Invece, nelle stesse angoscianti ore, Salvatore Giuliano, trova una casa amica e un medico compiacente a Borgetto, alle porte di Palermo. In cinque giorni smaltisce le conseguenze della ferita, però il suo destino è segnato: nelle mani dell’appuntato Rocchi, (che con Mancino e le due guardie campestri Barone e Manciaracina, avevano approntato i posto di blocco, ndr) è rimasta la sua carta d’identità. La notte in cui il fratello Giuseppe e alcuni parenti vengono a riprendere “Turiddu” lo portano direttamente in un rifugio a Calcerame, la collina che domina Montelepre da oriente. La madre, che con quel figlio, l’ultimo di quattro, ha un rapporto fortissimo, dai dichiarati tratti edipici, gli ha approntato un nascondiglio dentro una grotta. Giuliano trascorre lì la convalescenza. Una volta guarito, comincia a guardarsi intorno con il binocolo tedesco recapitatogli assieme a un mitragliatore e a una rivoltella. La borsa nera, il contrabbando del grano sono ormai alle spalle. L’attende un’esistenza nuova. Gli inizi sono da bandito di strada quali la Sicilia ha prodotto a centinaia. Protetto e aiutato da una diffusa omertà che dalla famiglia d’origine si estende all’intera Montelepre, dapprima da solo, poi attorniato da cugini, zii e da un numero crescente di simpatizzanti, Giuliano rapina e taglieggia, sequestra e uccide. Il suo obiettivo prediletto sono carabinieri e militari del regio esercito, che conducono una vita stentata, da ospiti mal sopportati per non dire di peggio. Giuliano agisce in una Sicilia arida, tra montagne che induriscono il paesaggio e il cuore, una terra che ha poco da offrire alle bestie che vi pascolano, figuriamoci agli uomini. E’ una Sicilia irredimibile già nel passato, secondo la celebre definizione di Tomasi di Lampedusa, immobile nei secoli, insensibile alle lusinghe di Garibaldi e ai cannoni di Cesare Mori, il famoso "Prefetto di ferro" inviato da Mussolini negli anni Venti per sradicare la mafia. In poco tempo le imprese del picciotto, capace, la notte del Natale ’43, di assaltare da solo un autocarro pieno di carabinieri, raggiungono orecchie interessate. Nel febbraio successivo Vito Genovese, "don Vitone", futuro capo dei capi di Cosa Nostra negli Stati Uniti, decide che la conoscenza di Turiddu vale uno scomodo viaggio da Palermo. L’incontro è immortalato da una foto. E cosi, mentre per il futuro boss si delinea un futuro criminoso di primissimo livello, per Antonio Mancino, sorge l’ultima alba, come si legge nel verbale. “Il giorno dopo Giustina Mandara si reca nuovamente in ospedale con il piccolo Salvatore e parlando con il marito riceve conforto sulle sue condizioni di salute. Ma alle 14, 30 - si legge testualmente – il bravo carabiniere muore tra le braccia della desolata consorte. Vittime purissima del dovere cui l’arma può aggiungere ai tanti nomi gloriosi dei suoi eroi caduti nell’adempimento del loro apostolato. La salma viene poi trasferita dall’ospedale di Monreale a San Giuseppe Jato. Il 4 settembre hanno quindi luogo i funerali celebrati in forma solenne”. Eppure quel 2 settembre del ’43 Antonio Mancino non si doveva trovare in servizio e tanto meno in località Quattro Molini. Ma lo spirito dell’arma prevede la collaborazione tra i militi perciò, di fronte alla richiesta di sostituzione avanzata da un suo collega, il carabiniere sparanisano, con grande disponibilità e spirito di abnegazione accetta inconsapevole di andare incontro al suo destino che di li a qualche ora si incrocerà con quello di Salvatore Giuliano, che con quel colpo esploso da un revolver calibro 9 decreta la genesi della mafia assassina. Fedele e ricca di particolari la dinamica del mortale ferimento riportata nel verbale. “Giuliano spara un colpo di pistola a tradimento contro il carabiniere Mancino approfittando dell’assenza degli altri due agenti. La guardia Barone impugna il fucile e spara contro Giuliano un colpo però andato a vuoto perché Giuliano afferra le canne del fucile facendo deviare il colpo. Segue una colluttazione durante la quale Giuliano spara 4 colpi per fortuna andati a vuoto. Poi getta l’arma a terra e si dà alla fuga. La guardia Barone spara il secondo colpo di fucile ferendolo questa volta alla spalla; poi protetto da un vicino canneto riesce a nascondersi senza poter essere raggiunto. I militari superstiti pensano di prestare le prime cure al carabiniere e a fare avvertire, come si è detto, lo scrivente”. Quindi il verbale si chiude con il commovente ricordo del maresciallo Garrone. “Il ricordo di questo fedelissimo mio dipendente, prezioso collaboratore in tutte le attività della vita di caserma e nei più delicati e rischiosi servizi dell’arma; volontario tra i volontari – come in questa occasione in cui ha offerto il sacrificio supremo della vita per lo zelo e l’attaccamento al dovere – rimane incancellabile non solo nell’animo mio, ma anche in quello di tutti coloro i quali hanno avuto modo di apprezzare le nobili doti e le elette virtù del Mancino, la cui anima benedetta riposa certamente nel Cielo degli Eroi”. Il toccante ricordo del suo comandante, riletto oggi, dovrebbe servire da monito alle generazioni che continuano a crescere senza ideali e senza punti di riferimento, che brancolano come pecore nella vastità della società del cinismo e del relativismo, come l’ha recentemente definita Papa Benedetto XVI. Ciò che più sconcerta è che questo triste episodio, che altrove viene tenuto in primissima considerazione proprio per la sua valenza nella ricostruzione storica del fenomeno mafioso e per l’esempio di legalità, ha trovato in più di 60 anni un solo riscontro a livello locale. “Di tutti gli amministratori che si sono succeduti a Sparanise - ricorda la maestra Antonio Mancino - solo il dottor Antonio Merola da sindaco, nel 2005, ha voluto ricordare il sacrificio di mio padre con una lapide di marmo apposta sul muro della casa dove abitò”. Cosi, noi di comunedisparanise.com, raccogliendo una proposta dell’amico Ferdinando Paternostro, abbiamo voluto portare alla ribalta questo fatto storico lanciando una proposta: perché non dedichiamo la locale caserma dei Carabinieri di Sparanise al carabiniere sparanisano che per primo pagò con la propria vita la barbarie del bandito Giuliano e della Mafia? Sarebbe un bel gesto per affermare quella “legalità” di cui tanto si sente parlare in giro ma che a Sparanise rimane un mistero assoluto e varrebbe da monito anche per le future generazioni. In attesa che le istituzioni locali, che avrebbero il dovere morale di fare la loro parte, smuovano qualcosa, noi della stampa libera ed indipendente lanciamo questo sassolino nello stagno dell’indifferenza, con la speranza che qualcuno raccolga questa proposta e si dia da fare per ricordare, come si deve, le eroiche gesta del carabiniere Antonio Mancino, un eroe di Sparanise.
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