GENOVA/SPARANISE - Centocinquant'anni fa nasceva il celebre barnabita Giovanni Semeria e l'anniversario non cade sotto silenzio. A Genova, ci saranno un convegno sabato 23 settembre (che inizia alle 10 presso la Sala Quadrivium, con gli interventi dello studioso Giuseppe Mastromarino, del barnabita padre Filippo Lovison, del padre Michele Celiberti presidente dell’Onpmi, l'Opera nazionale per il Mezzogiorno d'Italia, moderati dal giornalista Roberto Italo Zanini), e una messa solenne il giorno prima, alle 18, nella Chiesa delle Vigne (che si annuncia presieduta dall'arcivescovo di Genova, Angelo Bagnasco) a cui seguirà, alle 21, nella chiesa di San Bartolomeo degli Armeni, un concerto sinfonico della “Corelli Chamber Orchestra”.
A Roma, un’altra messa solenne, il 26 settembre alle 18, nella basilica di San Lorenzo in Damaso (pulpito tra i più familiari al barnabita che qui richiamava grandi folle) che sarà presieduta dal cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. L’indomani, il 27, alle 10, l’udienza generale con Papa Francesco, in piazza San Pietro, con folte delegazioni. E ancora a Sanremo, il 30 settembre, la mattina alle 11, a Coldirodi si svolgeranno lo scoprimento e la benedizione di una statua dedicata al religioso e, alle 18.15, nella concattedrale di San Siro, una celebrazione presieduta dal vescovo di Sanremo-Ventimiglia Antonio Suetta, seguita la sera da altre iniziative nel Teatro del Casinò. Il 1° ottobre, nella parrocchia di Coldirodi, altra celebrazione presieduta dal superiore generale della Famiglia dei Discepoli, padre Antonio Giura.
Sono tutti appuntamenti che ci ricordano il secolo e mezzo che ci separa dalla nascita di padre Giovanni Semeria. Un anniversario che durante l’anno ha visto altre celebrazioni, concentrate per lo più in Liguria dove il barnabita nacque il 26 settembre 1867 a Coldirodi, appunto, in provincia di Imperia, e nel casertano, a Sparanise, dove morì il 15 marzo 1931, e dove è stato ricordato nei mesi scorsi in alcuni incontri con il vescovo Arturo Aiello, recentemente passato dalla diocesi di Teano- Calvi ad Avellino, don Luigi Merola, il segretario dell’Onpmi don Cesare Faiazza, ed altri.
Certo, in un periodo in cui si “riabilitano” sacerdoti profeti a lungo emarginati, ritenuti eretici pericolosi o ingenui utopisti, anche per questo protagonista nella storia religiosa all'inizio del '900 - tanto nella crisi modernista quanto nel suo contributo alla carità - si potrebbe fare ancora di più e in diversi contesti. Ci sono infatti parecchi motivi perché sulla sua figura tornino ad accendersi i riflettori. Il suo profilo di predicatore magnetico capace di inchiodare l’uditorio («È il più celebre oratore sacro d'Italia, il più forte genio filosofico del clero italiano», affermava in proposito Edmondo De Amicis). La sua capacità mediatica che lo portava a continui confronti (con personaggi del calibro di Gentile o Murri), ad intervenire in dibattiti importanti sulla guerra, la scienza e la fede, la dignità della donna, la scuola cattolica, la questione sociale, ad essere presente in modo costante sulla stampa (anche straniera).
E come non tornare a riflettere sul suo profilo di tormentato scrittore e oratore spiato e denunciato dal Sodalitium Pianum (se ne sono occupati diversi storici, da Annibale Zambarbieri a Sergio Pagano ed altri), motivo per lui di tanta sofferenza? Come dimenticare le sue opere - vergate all'alba del XX secolo - sul cristianesimo nascente o dedicate alla Sacra Scrittura (per la “Revue biblique” fu lui il vero iniziatore degli studi biblici in Italia). Come ignorare i suoi rapporti con l’arte (studiati da Mariano Apa)? Senza dimenticare, certo, in primis, il suo ruolo nel sanguinoso conflitto mondiale, prima in trincea, poi come cappellano militare nel Comando supremo (che lo porterà anche a vivere una crisi avvertendosi come il responsabile della morte di tanti giovani), nonché il suo ruolo di fondatore, con l'amico don Giovanni Minozzi, dell’Onpmi, a favore degli orfani di guerra. Insomma l’intellettuale pensatore, ma pure l'apostolo della carità.
Se poi è vero che non mancano disparati spunti per affrontare la sua personalità in relazione con nomi come Giovanni Pascoli o Antonio Fogazzaro, la regina Margherita o il generale Cadorna, l’assicuratore Evan Mackenzie o l’architetto Gino Coppedé, don Orione o padre Gemelli, così come per ripercorrere la sua vita «affannosamente randagia» spesa per «lavorare al bene delle anime, alla diffusione della verità», nel segno della carità sia materiale che intellettuale (non a caso Roberto Italo Zanini tempo fa ha intitolato un suo profilo edito dalla San Paolo “Padre Semeria. Destinazione carità”), è pur vero che da una decina d’anni si conoscono ormai non solo le sue «memorie edite» (uscite già verso la fine degli anni Venti, “I miei ricordi oratori”), ma pure le sue «memorie inedite», rimaste tali quasi un secolo (poi edite dalla San Paolo a cura di Antonio Gentili e Annibale Zambarbieri: “Anni terribili”). Considerate disperse, erano finite a Bruxelles, dove Semeria era stato esiliato nel 1912.
Riportate in Italia nel secondo dopoguerra, insieme ad altre carte erano state collocate nell’Archivio storico dei barnabiti in Roma, quindi ordinate e trascritte negli anni ‘60. E qui viene il bello, perché questa fonte di grande interesse ci consegna la vera confessione - stilata tra il 1903 e il 1913, in pieno modernismo - del “primo Semeria”. Confessione riversata in tante pagine che hanno stupito un po’ chi ben conosceva le memorie già edite: e, cioé, difficilmente spiegabili se non nell’ottica di un vasto ripensamento per più d’un motivo. Le une scritte «con animo sacerdotale», «sine ira et studio», nella speranza di una riabilitazione agli occhi del Sant’Uffizio, le altre redatte allora con l’intento di dire «quasi tutta la verità […], perché il dirla proprio tutta è sempre impossibile».
Sin troppo facile cogliere, fra le due stesure, la diversità di timbri e registri con cui Semeria offre le sue valutazioni. Ad esempio sul modernismo e i Papi che se ne occuparono (con un giudizio capovolto nei confronti di Pio X qui bersaglio di aspri rimproveri per la repressione dei modernisti, là definito «Kephas» che «grandeggia, fiammeggia e sopravvive nella Pascendi»). Oppure sugli allontanamenti subiti dal barnabita che qui sono mete di esilio doloroso, là «trapianti necessari» che «danno frutti splendidi». E via di questo passo, in anni travagliati in cui il nostro si convinse che «forse ci vogliono dei martiri e non solo degli apostoli di un avvenire migliore» e che «profeti dell’avvenire sono i martiri del presente».
Certo nel memoriale avviato nell’agosto 1903 al ritorno dalla Russia (dove la visita di Semeria a Tolstoj era stata stigmatizzata da campagne denigratorie), interrotto e poi concluso nel settembre del 1913, anche solo per ragioni cronologiche, manca l’“altro Semeria”. Ovvero il barnabita che, incontrato don Giovanni Minozzi nella “Grande Guerra”, con lui crea le biblioteche e le case dei soldati, poi alla fine del conflitto raccoglie gli orfani e li consola, quindi si fa viaggiatore in lungo e in largo sempre in cerca di aiuti per le vittime più innocenti del conflitto. Scriverà: «Ho bisogno di chi mi legga, ossia mi compri, per i miei orfani».
Il barnabita dell’«eloquenza» dei fatti più che delle parole. Il sacerdote convinto che «si può credere a chi parla, ma è difficile non credere a chi lavora fortemente». Già, lavoro forte. Quel che è sicuro è che Semeria e don Minozzi, attraverso l’Opera Nazionale per il Mezzogiorno d’Italia, da loro fondata, sfamarono e aiutarono a studiare e lavorare migliaia di bambini in tante case costruite per loro lungo la penisola. Almeno quindici gli anni dedicati da Semeria a questa impresa, viaggiando anche negli Stati Uniti con l’unico scopo di raccogliere fondi. E tuttavia, nelle premesse di queste memorie lumeggia già il senso di una vita randagia spesa come prete, lavorando per la verità e la carità. Tutti traguardi cui avvicinarsi con il proposito – dichiarava questo precursore dei tempi - di «rimanere nella Chiesa anche sacrificando l’operosità immediata, e lavorare in silenzio al rinnovamento di essa». Articolo tratto da La Stampa
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